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Il senso religioso in de Lubac

Pubblicato in Communio, n. 98-99 [1988], pp. 50/74.

1. L'orizzonte del discorso

Il contesto nel quale possiamo comprendere l'insegnamento di de Lubac sul «senso religioso» è dato da un lato dal perdurare, pur in forme mitigate, del «razionalismo teologico» nel campo del pensiero cattolico, mentre, d’altro lato, andavano facendosi sempre più evidenti gli effetti della negazione di Dio nella civiltà contemporanea.

Il razionalismo teologico, anzitutto, cioè quell’impostazione prevalente nella teologia cattolica dei secoli moderni (dal XV al XIX/XX), tendente a relegare il mistero in un’area sempre più circoscritta e sempre meno credibile [1], finiva col rendere Dio qualcosa di in fondo inutile, garante estrinseco di una razionalità naturale in sé sufficientemente costituita[2]. Il neotomismo contemporaneo, pur non potendo essere contras- p. 50 segnato sic et simpliciter come razionalismo teologico, sia perché internamente diversificato in una certa pluralità di atteggiamenti culturali, sia perché, in ogni caso, quasi tutti i suoi esponenti più significativi hanno cercato di correggere gli eccessi dell’impostazione razionalistica, invalsa nella scolastica moderna[3], appariva a de Lubac ancora incapace di fornire all'umanità odierna quella percezione di Dio come Mistero infinito che solo gli si adegua. Dio rischiava ancora di essere avvertito per un verso come una entità lontana e astratta, inincidente in una vita, in cui la semplice ragione e le energie naturali della volontà svolgevano la parte principale; per un altro verso un «Dio», di cui non si poteva cogliere la rinnovatrice e salvifica presenza nella concreta esistenza dell’uomo, rischiava di essere scambiato con il Garante, piuttosto che di quell’ordine naturale, che nelle cose umane non esiste allo stato puro, di quello che è stato giustamente definito il “disordine costituito”, quella “falsa normalità” in cui una parte notevole è tenuta dal “Principe di questo mondo” [4]. Se dunque Dio rischiava di essere uno spunto motivazionale piuttosto estrinseco per quanti disponevano di una robusta moralità naturale, presso una fetta crescente dell'umanità contemporanea, sempre più avvolta in un turbine di vicende oggettivamente drammatiche, rischiava addirittura di essere associato a un’immagine di ingiustizia e di oppressione. E ci riallacciamo così all’altra coordinata che ci aiuta a comprendere l’orizzonte in cui si muove de Lubac: il dramma di un “umanesimo” fondato sulla ribellione a Dio. Dopo la breve e illusoria parentesi della “Belle Époque”, l'Europa, allontanatasi, almeno a livello di élites politico-economiche e intellettuali dal Cristianesimo, aveva po- p. 51 tuto assaggiare gli amari frutti dell’anti-Verbo, conoscendo le guerre più sanguinose e i regimi totalitari più spietatamente repressivi che la storia ricordi.

Di fronte a un tale dramma non poteva bastare una riproposta parziale del Fatto cristiano, quale era quello (al di là delle indubbie buone intenzioni), di molto neotomismo; non bastava una sorta di Dio finito, quasi un fratello maggiore che accompagna, in fondo impotente, un uomo lasciato in balìa pressoché totale di se stesso [5]. Occorreva una riscoperta della dimensione totalizzante del Cristianesimo, e di Dio quale Signore e Padre onnipotente, la cui grazia può efficacemente ricreare l’esistenza dell’uomo.

2. L’ineliminabile affermazione di Dio

Ciò chiarito, vediamo di ripercorrere alcune tappe essenziali del discorso di de Lubac, considerando dapprima, affermativamente, della costitutività del senso religioso, e dappoi, negativamente, quello delle distruttive conseguenze del suo soffocamento. Il senso religioso come strutturale e costitutivo nesso dell’uomo con l’Infinito, è affermato con molta nettezza da de Lubac, tanto a livello conoscitivo, quanto a livello affettivo-volitivo.

Per quanto concerne il primo livello, de Lubac sottolinea che quella di Dio non è un’idea accanto ad altre idee, ma è l’anima, la sintesi, la radice che fonda e permea tutta l’umana conoscenza[6].

Per questo, propriamente parlando, non si può dire che l’idea di Dio abbia una origine. Non soltanto vengono scattate quelle teorie che vedono nel monoteismo un prodotto di una determinata evoluzione storico-sociale, tendente cioè all’unificazione accentratrice e alla gerarchiz- p. 52 zazione; teorie queste smentite clamorosamente dal fatto che una civiltà unificatrice e gerarchizzata come l'Impero romano rimase a lungo politeista, mentre le tre grandi religioni monoteiste sorgono in regioni sperdute e periferiche della civiltà, e non certo al culmine della potenza dei popoli cui appartengono i loro “fondatori”? [7] Ma viene precisato che anche da un punto di vista logico l’idea di Dio, in un certo senso, non ha origine, non è cioè ricavata da altre (né,ovviamente, è astratta dal dato sensibile). Vi è infatti in noi «una certa idea di Dio — non oggettivata, non ancora vista, non cosciente sebbene presente alla coscienza, in una parola, non concepita, precedente tutti i nostri concetti e sempre presente in tutti»[8]. Quella di Dio, ripetiamolo, non è un’idea tra le tante, alla pari delle altre, ma è «la realtà che domina, avvolge e misura il nostro pensiero»[9].

Riteniamo che questa concezione si situi a monte del problema tecnicamente filosofico dell’innatismo: tant'è che de Lubac può portare a sostegno di essa un pensatore che certo innatista non è, come Tommaso d'Aquino[10]. Del resto proprio l’affermazione della assoluta singolarità e incomparabilità dell'idea di Dio rende inesatto parlare di essa come di una idea innata: si tratta di una presenza intellettuale, ma non concettuale, coessenziale al pensiero e irresolvibile, proprio perché fondante, onniavvolgente. Piuttosto l'intento di de Lubac è quello, esistenziale piuttosto che meramente speculativo, di portar ea riconoscere quello che è il Fondamento, la Condizione ineliminabile dello stesso pensare.


Si può quindi parlare, piuttosto che di un innato concetto (già ben stagliato e definito) di Dio, di un originario e irriducibile «senso di p. 53 Dio», di un senso religioso cioè come anima della ragione. Lo spirito umano ha, dice de Lubac, un potere di affermare che sorpassa il potere strettamente concettuale-discorsivo della ragione [11]: per questo chiunque, anche il non-filosofo, anche l’illetterato e l’incolto possono giungere a Dio con un grado di certezza che sostanzialmente non ha nulla da invidiare a quello del più acuto metafisico [12]. A tal punto la percezione di Dio è radicata nel nostro spirito e la sua presenza è ineliminabile che «per avere il diritto di negare Dio senza contraddirsi, bisognerebbe potere e, al tempo stesso, cessare di volere e di pensare. Bisognerebbe cessare di parlare» [13]. E, ancora, se «lo spirito non affermasse Dio —se esso non fosse affermazione di Dio — non potrebbe affermare nulla. Come una terra privata del suo sole, esso non avrebbe più alcuna legge(...). Non potrebbe più giudicare. Avrebbe perduto la sola cosa che può servire di appoggio, di luce,di norma, di giustificazione, di riferimento a tutto il resto»[14].

Non si può però arrestarsi a tale livello pre-concettuale, che, se da un lato è di per sé inoppugnabile, rischierebbe, senza il lavoro riflessivo della ragione logica, di rimanere qualcosa di vago e fluttuante, soggetto a interessate interpretazioni. Si può, invece, e si deve argomentare, e con ragioni stringenti e persuasive sull’esistenza di Dio Creatore e Signore [15]. La prova, che ne sortisce, pur sostenuta dall’impeto affermativo pre-concettuale che informa di sé il pensiero, ha nondimeno un intrinseco valore. È bensì vero che de Lubac poco indulge all’apparato tecnico delle p. 54 vie razionali, mettendo in rilievo, in termini piuttosto concreto-esistenziali, il loro denominatore comune. Ciò non significa minimamente, però, abbracciare una posizione fideista: per «credere in Dio, io non mi accontento di una mezza prova: il senso morale quanto l’intelligenza vi ripugnano»»[16]. L'esistenza di Dio non è qualcosa di semplicemente «probabile» [17] e nemmeno è soltanto «verosimile» [18]: essa è una certezza, e la più grande di tutte.

Tutte le vie che conducono razionalmente a Dio sono, per de Lubac, varie sfaccettature, molteplici modi di esplicitarsi di una identica prova, di cui anche l’uomo più semplice è capace [19]. Egli comunque raccoglie alcune di tali molteplici prove, peraltro quasi solo accennandovi, e senza sviluppare, come dicevamo, un discorso rigoroso e organico [20]. Dio come Causa prima,in senso non cronologico, ma ontologico; Dio come Assoluto, che sorregge il relativo; Dio come «Punto Alfa» e «Punto Omega» [21], evidenti reminiscenze teilhardiane, contro «l’assurdità del caos primordiale» e «la disperazione del caos finale» [22]; Dio come Essere che, solo, può rendere sensato il divenire [23]. E, ancora, Dio come Con p. 55 dizione e Termine adeguato del pensiero [24]; Dio come Bene ultimo, implicitamente riconosciuto da ogni coscienza morale [25]; Dio come Sovra-soggettività, Intimior intimo meo, che fonda e sostiene la soggettività del mio io[26]. Non è qui il caso di esporre tali prove, già di per sé assai succinte, nel testo di de Lubac: faremmo un inutile riassunto di un riassunto. Rileviamo invece come presieda al discorso del teologo di Cambrai, una forte istanza di esistenzialità, volta ad interpellare non solo l’intelletto, ma l’umanità intera del lettore.

Questa medesima istanza lo conduce a sottolineare che Dio termine di una argomentazione razionale-filosofica, è l’Identico Dio «di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» [27]. Anche sulla scorta di un approccio semplicemente naturale, che parta dalle cose, dall’universo, Dio non appare mai quale mero Oggetto, per quanto nobile e perfetto, ma piuttosto quale vivente Soggettività. Il mondo infatti è teofania, non nel senso spinoziano di una necessaria e impersonale estrinsecazione di una Sostanza infinita, ma nel senso di una loquente autorivelazione di una libera Personalità creatrice [28]: «Davvero Dio mi fa segno. Le creature Gli servono come primo mezzo per comunicare con me» [29], Per questo, pur essendovi distinzione, non vi è reale separazione tra la spinta della ra- p. 56 gione naturale,filosofica, alla conoscenza di Dio come Causa dell’essere finito e lo slancio mistico anelante alla conoscenza di Dio in Se stesso[30]. Insomma Dio, a cui approda il naturale senso religioso dell’uomo, è lo Stesso che soprannaturalmente si rivela in Gesù Cristo[31].

Sempre l’identica istanza di esistenzialità conduce de Lubac ad una considerazione concreta e realistica del processo che porta l’uomo a riconoscere Dio. Non si tratta, ci viene ricordato,al seguito di una tradizione vasta e autorevole [32], di un processo che impegni soltanto la conoscenza intellettuale. Da un lato, infatti, pur essendo la vita stessa del pensiero e l’imprescindibile luce di ogni suo atto sensato, quella di Dio è una evidenza del tutto sui generis (e come potrebbe non esserlo?), diversa, e più eludibile dalle evidenze matematiche e da quelle sensibili [33], appunto perché fondante e perciò incomparabile. La stessa dimostrazione della Sua esistenza, per quanto in sé stringente e rigorosa, non si impone al nostro spirito concreto senza una sua vitale partecipazione [34]. D'altro lato la verità su Dio non può lasciare nessuno indifferente, trattandosi del problema da cui dipende la vita intera di ogni persona; e allora occorre che l’atteggiamento del soggetto alla ricerca di tale verità non sia viziato da pregiudizi. Per l’una ragione e per l’altra è necessario un coinvolgimento positivo della libertà: la «potenza di conoscere con certezza e di volere liberamente (...) si esaltano a mano a mano che il loro oggetto si eleva, tendendo così a ricongiungersi nell’unità. Esse non p. 57 sono mai tanto vicine come nell’affermazione di Dio» [35]. Insomma, di fronte a Dio che si presenta a lui non come luce accecante e coercitiva, ma come Chi, svelandosi, rimane Nascosto, esiste nell'uomo un livello ineliminabile di opzione.

Tali sono dunque, in sintesi, i tratti fondamentali del senso religioso in de Lubac,quanto al versante conoscitivo: il Dio Pantocratore, Infinito nella sua Luce e nella sua Vita inaccessibile, soprannaturale (contro le riduzioni «finitistiche» del razionalismo moderno), essendo il Centro e il Cuore del creato e del pensiero, pur riconoscibile come tale con certezza dalla ragione (contro ogni dualismo fideista), interpella l’uomo integrale, la cui mente non è scindibile dalla volontà (contro ogni astrattezza intellettualista).

3. Il desiderio naturale di Dio

Ci ricongiungiamo così all’altro versante, quello appetitivo-volitivo, in cui pure è iscritta una inconfondibile e ineliminabile tensione verso Dio. Non soltanto l’umana conoscenza è permeata dalla Luce di Dio,ma anche l’umano desiderio è strutturalmente orientato, nella sua radice, verso la Pienezza soprannaturale di Dio: è il tema del «desiderium naturale vivendi Deum».

Questa tesi, comunemente accolta da tutta la Tradizione patristico-scolastica fino al XIII/XIV secolo, era caduta in disgrazia nei secoli moderni, che videro il fiorire della teologia della «natura pura» [36]. Tale teologia ebbe il suo precursore, annota de Lubac, in Dionigi il Certosino (morto nel 1471), ma conobbe una vera e propria fioritura nel clima della cultura p. 57 controriformista del Cinquecento e Seicento, esprimendosi nelle concezioni di Tommaso de Vio detto il Gaetano, di Francisco Suareze, Roberto Bellarmino, di Domingo Báñez e dei teologi salmanticensi, autori tutti che eserciteranno, sul problema in questione, un esteso e durevole influsso [37]. Secondo questa impostazione, l’uomo, al pari di qualunque altro ente naturale, non può desiderare altro che qualcosa di proporzionato alle sue capacità naturali, e quindi attingibile con le sue forze, e perciò finito. Dunque Dio, nella Pienezza soprannaturale della Sua vita, non può essere termine del desiderio che anima e orienta la volontà umana [38]. In questo modo, secondo de Lubac, si viene a negare un intrinseco nesso tra l’ordine naturale e quello soprannaturale, tra la vicenda umana e l’Evento cristiano: se l’uomo può saziare il suo desiderio in un bene naturale, perché mai dovrebbe correre il rischio della proposta soprannaturale cristiana? Come, a livello conoscitivo, il razionalismo teologico tendeva a fare di Dio un’idea accanto ad altre, in fondo inincidente su un dinamismo logico, già in sé strutturato, così, a livello affettivo-esistenziale, la «natura pura», espressione del medesimo razionalismo, finiva col fare del soprannaturale un’aggiunta estrinseca e inutile ad un ordine naturale già in sé completo. Il senso religioso, in un tale contesto, si riduceva facilmente ad una vaga e velleitaria aspirazione a un livello di felicità astratta, in quanto pur essendo collocata nel Trascendente ne supponeva possibile una funzione puramente naturale, a misura delle capacità limitate dell’uomo. Ma questi non veniva proiettato, in forza di un suo intrinseco dinamismo appetitivo, a inserirsi nell’orbita soprannaturale incentrata su Cristo. Non era il Dio Infinito, sovrabbondante ogni misura e assoluto Signore di tutto, ciò a cui approdava il senso religioso del razionalismo teologico, ma un Dio in qualche modo circoscrivibile dalla pura razionalità, più garante dello «status quo» naturale p. 59 che sconvolgente Novità ricreatrice.

Tale non era stata, dimostra de Lubac [39], la concezione tradizionale: per S. Agostino come per S.Tommaso, per S. Anselmo come per S. Bonaventura [40] il compimento, la realizzazione dell’uomo, ciò a cui tende, e che solo può saziare il suo desiderio è e non può essere altro (nel presente ordine salvifico) che la partecipazione soprannaturale, in Cristo, alla vita del Dio Unitrino. Ogni felicità «puramente naturale» è dunque esclusa: «inquietum est cor nostrum, donec requiescat inte»! E lo stesso S. Tommaso aveva affermato: «Homo factus estad videndum Deum» [41]; «factus»,non «salvatus»: cioè nell’istante della creazione, in cui è stato «fatto», nella sua stessa natura quindi, l’uomo è orientato a un compimento soprannaturale, e non soltanto nel momento della redenzione. Quello di vedere Dio, cioè di partecipare alla Sua vita, quello del compimento soprannaturale non è un desiderio aggiunto, storicamente, alla natura umana, quasi come un problema in più per quanti si convertono al Cristianesimo, ma èil desiderio fondamentale che costituisce la stessa natura dell’uomo in quanto tale, coessenziale al suo essere «fatta», «creata».

Nell'uomo infatti agisce il desiderio, non di una felicità qualsiasi, riverbero del raggiungimento di beni e di obiettivi finiti, «puramente naturali», ma il desiderio della felicità piena, perfetta e perciò infinita. E tale felicità la Rivelazione ci dice essere proprio in Dio, nella Sua Vita infinita, a cui il Cristo solo ci può introdurre.

Proprio questa esigenza di perfetta felicità è l’anima, l’intimo costitutivo della volontà, la molla segreta che spinge l’uomo ad agire; e proprio essa è rivelatrice del legame profondo che unisce l’essere umano al Suo Destino. In questa prospettiva ben si capisce che il senso religioso è qualcosa di più di una pia velleità, a lato della normale esistenza, ma è piuttosto il cuore, l’intimo e onnicomprensivo movente di ogni nostro operare che, consapevolmente o meno, tende a Dio, nella Sua vita soprannaturale.

Come la stessa conoscenza naturale non rimanda soltanto a un «Dio filosofico», ma al Dio «di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», così il desiderio profondo dell’uomo non si può saziare solo di una generica religiosità, fosse pure raffinatamente monoteistica: è solo Gesù Cristo p. 60 che, svelandogli il vero volto di Dio, Santissima Trinità, può acquietare e appagare il desiderio dell’uomo.

Alcuni rilievi si impongono qui. Anzitutto, al livello appetitivo-affettivo, che stiamo esaminando in questo paragrafo,la forma che il senso religioso assume è, come abbiamo intravisto, quella del desiderio, piuttosto che quella del bisogno. Ciò si riconnette con la, peraltro implicita, cristologia del padre de Lubac, che tende a riscoprire in Cristo accanto e al di sopra della funzione «riparatrice» (delpeccato), quella «deificatrice» [42]. Il bisogno, infatti, indica piuttosto una mancanza, una ferita, introdotta nell’umano dal peccato originale; il concetto di desiderio ha invece unicamente una connotazione positiva, di tensione a un bene non ancora fruibile, da parte di una soggettività «sana»: si ha bisogno di essere salvati, redenti, guariti, si ha desiderio di perfetta felicità, di beatitudine, di essere introdotti nella vita di Dio. Che cosa significa questa -scelta? Forse è l’indizio di un’«anima bella», paga di un astratto spiritualismo incapace di guardare in faccia le miserie e i drammi della vita reale? Niente di più lontano da un animo così sensibile e sinceramente impegnato nella concreta vicenda dell’uomo come de Lubac [43]. Si deve invece vedere nella sottolineatura del concetto di desiderio ciò che p. 61 appunto ci viene suggerito dal suo raccordo con una certa accentuazione cristologica [44]: l’uomo non ha soltanto bisogno che le sue ferite siano sanate, che il suo male sia riscattato, ma ha il desiderio di infinita felicità. Il che non conduce a una pretesa verso Dio, ma piuttosto pone il Cristo, piuttosto che come restauratore della natura (ottica della riparazione), come riplasmatore di essa; il centro allora non è più la natura, la prima creazione, ma è il soprannaturale, la seconda creazione, l’Evento di Cristo. Non la grazia gravita intorno alla natura, per restautarla, riportandola all’integrità perduta; ma la natura gravita intorno alla grazia, a Cristo che la introduce in un’orbita, in un ordine assolutamente nuovo. Se dunque si parla di desiderio piuttosto che di bisogno è perché esso è il correlativo, ex parte subiecti, del Cristo deificatore, del Verbo eterno del Padre, Alfa e Omega di tutto, che tiene il mondo nel palmo della Sua mano e lo trasfigura in una nuova creazione, come il bisogno è correlativo di Gesù riparatore, dell’uomo sofferente che espia il peccato di Adamo, riportando la natura alla sua originale integrità (che è però, appunto, un’integrità naturale, quella della prima creazione).

Siamo così introdotti al secondo chiarimento che ci sembra necessario: in che senso il desiderio di una pienezza che solo il dono soprannaturale può dare, non costituisce una pretesa della natura verso la grazia, e quindi una confusione tra i due ordini? Dio è forse obbligato a chiamare l’uomo a partecipare alla Sua vita? Bisogna dire che de Lubac non indulge a equivoci e se si è potuto interpretarlo in modo diverso è solo per una superficiale lettura della sua opera. Dio ci ha creati dal nulla per un libero decreto della sua Onnipotenza, per un altrettanto libero decreto ci ha destinati a una finalità soprannaturale: se avesse voluto, avrebbe potuto benissimo creare tanto un essere corporeo-spirituale (come l’uomo), quanto un essere spirituale (come l’angelo), in stato di «puramente naturale» e destinato a Lui come Fine naturale (fruito in modo appagante dalle semplici facoltà naturali). Ma così non è stato, di fatto. Di fatto, appunto, non di diritto [45]. Certo che un’umanità «pura- p. 62 mente naturale» avrebbe potuto esistere: solo che non è la nostra, noi non siamo così. La concreta, attuale economia creativo-redentiva è imperniata sul soprannaturale, in vista del quale nella stessa natura ne è stato iscritto il desiderio, acciò che questa potesse accettare di trascendersi in quello. Nessuna confusione, quindi, tra natura e soprannaturale: quest’ultimo è un altro ordine, irriducibile al primo, e ad esso superiore, novità imprevedibile e grande [46]. Certo, però, nemmeno nessuna separazione (ἀσυγχύτως καὶ ἀδιαιρέτως, potremmo dire, riprendendo Calcedonia): Dio che sapeva fin dall’inizio che la prima creazione sarebbe stata ricapitolata in Cristo, non ha avuto bisogno di aspettare, non ha dovuto «cambiare piano», per così dire, iscrivendo dapprima il desiderio di un fine puramente naturale e soltanto poi (e solo negli eletti) quello di Lui come Fine soprannaturale [47]. Fin dalla creazione della natura, Dio ha iscritto in quell’uomo che, di fatto, sarebbe stato destinato a vederlo, il desiderio di tale visione, senza peraltro che questa divenisse prevedibile o accessibile alle sole forze della natura.

Dunque, tanto per il versante conoscitivo, quanto per quello affettivo, l’uomo è costitutivamente proteso e aperto all’Infinito, a quel Dio che solo il Cristianesimo svelerà appieno. Ma allora possiamo facilmente aspettarci che, se le cose stanno così, il senso religioso potrà difficilmente, e non senza gravi danni, essere tolto dal cuore dell’esistenza.

4. Il dramma della negazione di Dio

È quanto appunto possiamo verificare ripercorrendo il discorso di de Lubac circa l’ateismo contemporaneo. Precisiamo anzitutto due questioni,la prima di tipo ermeneutico, la seconda di tipo assiologico. De Lubac, anzitutto, non esamina in modo storico-sistematico le cause dell’ateismo, soprattutto a livello filosofico. Non è tuttavia difficile porre in relazione al sorgere del fenomeno ateistico, quella impostazione riduttiva del Cristianesimo (e di Dio) che va sotto il nome, lo abbiamo visto, di razionalismo teologico [48]. E ciò in un duplice senso: da un lato esso p. 63 ha favorito un suo proseguimento (se così possiamo dire) «finitistico», dall’altro ha suscitato una reazione (ci si passi il termine) «infinitistica»; proponendo cioè all’uomo moderno una méta finita, esso ha da un lato assuefatto a questa la parte meno pensosa e meno viva della società, favorendo il generarsi dell’ateismo come indifferenza al religioso, d’altro lato ha spinto gli spiriti più assetati di totalità a cercare un assoluto al di fuori e contro il Cristianesimo e la religione, concorrendo al formarsi dell’ateismo totalizzante [49]. Il primo tipo di ateismo ha negato quella tensione all’Infinito, che è il cuore del senso religioso, riducendo il desiderio dell’uomo ad una aspirazione al benessere, secondo una misura borghese, saziantesi del finito e breve orizzonte dell’esistenza biologica. Il secondo tipo ha conservato la domanda di totalità, di assoluto, ma trasferendone la risposta nell’immanenza, in un titanico sforzo di riplasmare radicalmente l’uomo, per renderlo il più possibile «divino». Ma l’uno e l’altro si possono, come dicevamo, connettere alla riduzione naturalistico-razionalistica che ha inquinato la proposta cristiana nei secoli moderni.

In secondo luogo, in sede valutativa, de Lubac non condivide il giudizio di certi teologi che salutano nell’ateismo una benefica occasione di purificazione del Cristianesimo, che, spogliandolo della ingombrante e deformante scorza di «religione», lo riconduca all’essenziale sempli- p. 64 cità della «fede», non commista a mediazioni culturali o «politiche» [50]. L’ateismo è un male. Porta l’uomo all’autodistruzione. E quindi deve essere combattuto. Su questo de Lubac non ha dubbi: una cosa è il dialogo conl’ateo, altra cosa è quella arrendevolezza di fronte alle pretese dell’ateismo, che ha contrappuntato troppo pensiero cristiano contemporaneo. Un atteggiamento di simpatia è certo doveroso nei confronti dell’incredulo: «ci vogliamo sforzare soprattutto di ascoltarlo, di aprirci alle sue ragioni, alle sue difficoltà» [51]; ma diverso è il discorso nei confronti dell’ateismo, in sé considerato: «L'invito al dialogo non è un invito ad abdicare alla nostra razionalità. (...) Per quanto siano complesse le sue espressioni la Verità è una»[52]. Occorre perciò accettare l’idea di una lotta, certo tutta spirituale, e anzitutto contro la propria incredulità, tra due forze irriducibilmente antagoniste: la fede e l’ateismo [53].

Ciò chiarito, entriamo nel vivo dell’analisi delubachiana distinguendo due forme principali di manifestazione dell’ateismo: la prima,corrisponde alla versione indifferentista, «finitistica»,la seconda alla versione totalizzante.

Un primo tipo di ateismo, puramente negativo[54] e sazio del finito, pretende di trovare le sue ragioninel progresso della scienza e della tecnica, che libererebbero l’uomo dal bisogno di ricorrere,tanto teoreticamente quanto praticamente, alla trascendenza [55]. Infatti, sostiene p. 65 questa posizione, la scienza anzitutto permette di spiegare la realtà visibile senza ricorrere all'idea di una Causa Prima, al di là di essa. La tecnica poi, che dalla scienza deriva, permette all'uomo di raggiungere una indipendenza totale, essendogli possibile soddisfare le sue esigenze senza l’aiuto di un Altro.

De Lubac non ha difficoltà a demolire una così puerile motivazione (che dimostra piuttosto, in chi la adduce, una imperdonabile leggerezza nel considerare il problema religioso). Anzitutto la scienza — egli osserva — è sì un sapete valido, ma non è un sapere esaustivo. Non esaurisce il reale nella sua totalità, ma si ferma ad un suo particolare livello.

Oltre la domanda scientifica, vertente sui particolari, esiste quella filosofica, vertente sul tutto: l’una non esclude l’altra. E se, in passato, la ragione filosofica aveva invaso il campo di quella scientifica, risalendo subito a cause trascendenti per spiegate i fenomeni particolari, va certo riconosciuto tale errore, salutando come benefica una giusta distinzione di sfere; ma ciò non è un buon motivo per commettere l’errore opposto, di defraudare l’istanza razionale-filosofica del suo legittimo territorio [56]. E così avverrebbe se si facesse decidere alla scienza il problema dell’esistenza di Dio: non è sua competenza. La scienza di per sé non può né affermare, né negare Dio: è su un altro piano da quello filosofico, che tale alternativa deve invece affrontare[57]. Va dunque decisamente smascherato, conclude de Lubac, il sofisma che pretenderebbe di spacciare per scientifica, e perciò oggettivamente indiscutibile, una asserzione che è in realtà di tipo filosofico. Per quanto poi concerne la tecnica, se è innegabile che abbia apportato dei benefici all’umanità, essa rimane del tutto impotente a risolvere i problemi più essenziali dell’uomo, come il p. 66 male e la morte. Analogamente alla scienza, capace sì di spiegare dei particolari, ma non la totalità, anche la tecnica aiuta l’uomo a rispondere a dei bisogni particolari, ma non al bisogno fondamentale, al problema [58].

Ma per de Lubac il tipo più importante di ateismo contemporaneo è quello totalizzante, positivo, antiteistico, quello che pur non rinnegando la domanda di totalità, di pienezza, la riduce ad una ricerca di pienezza e di totalità immanenti alla storia. Se il primo tipo di ateismo, quello come indifferenza, è il più diffuso nella coscienza della gente che si proclama atea (o lo è, di fatto), tuttavia è proprio l’ateismo totalizzante quello che costituisce l’anima profonda della cultura atea e anticristiana del nostro tempo[59]. Non potrebbe essere che così, se è vero che il senso religioso è il costituivo più profondo dell’uomo, il quale è tensione all’Infinito, come abbiamo detto nei paragrafi precedenti: infatti tale tensione, tale desiderio non può essere semplicemente negato, occorre che l’oggetto ne sia sostituito. L'uomo è desiderio di Dio, desiderio di pienezza. Non potendo indirizzarsi verso la trascendenza, tale desiderio, che non è sradicabile dal cuore umano, si orienterà verso l’immanenza. Sarà desiderio e ricerca di una pienezza, di una totalità immanente, storica. A suo modo, quindi, anche l’antiteismo è una prova della costitutività del senso religioso, che non può saziarsi che dell’Infinito.

Se l’ateismo come indifferenza poggia su una (pur arbitraria) interpretazione del progresso scientifico-tecnico, qual è il fondamento dell’ateismo totalizzante? In ultima analisi si tratta di una scelta, che è scelta di valore. Non ci sono delle vere e proprie ragioni, poiché l’anti-teismo rifiuta la metafisica, e perciò non si pone neppure il problema di dimostrare teoreticamente la non esistenza di Dio: elimina alla radice p. 67 il problema stesso, dichiarandolo illegittimo e cercando semmai di evidenziarne le radici patologiche nel soggetto che lo pone [60]. Non dimostra, ma vuole. Esige che Dio non sia, perché possa essere l’uomo: scelta per il valore di autonomia assoluta dell’uomo, di fronte a cui una trascendenza non potrebbe essere altro che ostacolo e impedimento [61].

Tre sono le diramazioni principali che tale ateismo assume in età contemporanea: una si diparte dalla coppia Feuerbach-Marx, l’altra si rifà a Nietzsche, la terza ha il suo capostipite in Comte. Non è qui la sede per esaminare nei dettagli tale triplice manifestazione dell’antiteismo. Piuttosto cerchiamo di evidenziarne alcuni, fondamentali, tratti comuni, che ci permettono di verificare, in negativo, quanto abbiamo esaminato, in positivo, nei due precedenti paragrafi. Abbiamo infatti osservato che, per de Lubac, il senso religioso è costitutivo dell’umano, e che il Cristianesimo ne è l’unica risposta adeguata. Ora, analizzando i tre tipi di ateismo totalizzante, è possibile rinvenire,secondo il medesimo de Lubac, due elementi che a modo loro provano tali asserti: un lato, infatti, tutti e tre gli antiteismi si nutrono, pur rovesciandoli, di idee e di valori totalizzanti, desunti dal Cristianesimo; d’altro lato, tutti e tre danno luogo a dei sistemi politico-sociali radicalmente antiumani. Essi perciò verificano da un lato la ineliminabilità del religioso in genere, e del cristiano in specie, e d’altro lato, dimostrano la rovinosità del sovvertimento dell’autentica religiosità.

p. 68

Vediamo dunque di considerare brevemente il primo elemento. In Feuerbach(e in Marx, che per de Lubac [62] dipende, quanto all’ateismo da questi) -esso prende l’aspetto di una divinizzazione dell’uomo: il filosofo tedesco rifiuta infatti l’appellativo di ateo; egli non nega Dio, semplicemente nega che Dio sia altro dall’uomo [63]. Perciò egli poteva pretendere, ancora, di non rinnegare il Cristianesimo, ma di svelarne la vera essenza, fino allora nascosta da velami mitico-simbolici[64]. Più che una soppressione della domanda di totalità, abbiamo dunque in Feuerbach una trasposizione dell’oggetto saziante, dal trascendente all’immanente, a quello che egli chiamava l'uomo concreto, reale, ma che è poi la specie, il Gattungswesen. Anche in Marx del resto troviamo piuttosto un tentativo di infinitizzare il finito, che non un borghese appagamento di quest’ultimo. Pur cercandolo nella storia, e con le sole sue forze,è all’«Uomo Perfetto», all’«Uomo Totale»,che il marxismo mira [65]. Perciò de Lubac può parlare, a questo proposito, di una trasposizione immanentistica ed atea di elementi cristiani, di un «cristianesimo secolarizzato» [66].

Anche in Nietzsche de Lubac scopre un profondo anelito mistico, un senso religioso deviato, ma fortissimo. Di lui certamente non si può dire che la religione, e il Cristianesimo in specie, lo lasciasse indifferente: un viscerale e vibrante sentimento di amore-odio lo lega alla figura di Gesù, e sferzante è la sua condanna, in Così parlò Zaratustra, p. 69 per quegli atei superficiali e ridanciani, paghi dell’immediato, che non si accorgono di quale immane stravolgimento implichi negare davvero Dio [67]. Ma si può andare oltre, cogliendo negli stessi contenuti che sostanziano il suo pensiero antiteistico, degli elementi religiosi. Ad esempio, l’idea di eterno ritorno ha, secondo de Lubac, una forte connotazione mistica: perché altrimenti Nietzsche avrebbe ritenuto di annunciare un'idea nuova e rivoluzionaria, parlandone, visto che già diversi filosofi greci (come gli stoici) l'avevano teorizzato? O perché se ne entusiasmerebbe tanto, pur sembrando una tale concezione deprimente e nemica di ogni creatività [68]? Solo perché riteneva l’uomo non risolvibile nell’oggettualità materiale, nel finito, e collocabile nel centro stesso divino della realtà: il suo non è l’eterno ritorno dei Greci, puramente empirico, esterno all’io, in esso invece per il Superuomo ogni istante «porta l’impronta dell’eternità» [69]. Perciò, ancora, esso entusiasma e non opprime quel Superuomo che attivamente, in quanto divino, lo plasma trionfandone[70]. Anche in Nietzsche, dunque, troviamo una aspirazione all'infinito, alla totalità. Egli «aspirava al sì totale»[71], ma si ingannò cercandolo in un falso assoluto, sostituendo il vero Dio, con dei sostituti, il Superuomo e l'Eterno Ritorno, che dovevano rivelarsi mortiferi [72].

Nettamente diverso il caso di Comte, il cui ateismo sembra pascersi in una beata aproblematicità (come commenta von Balthasar[73], «è la morte del problema in occidente»), crassamente soddisfatta di sé. Osserva ancora von Balthasar: «di fronte alla ostinata festosità di Comte (...) vi è un solo no, in tutta l’opera di de Lubac, altrettanto radicale: quello detto a Gioachino da Fiore» [74]. E tuttavia, pur in una così squallidamente borghese cornice, non mancano nel pensiero del Gran Sacerdote dell'Umanità i tratti espliciti di un grottesco tentativo di rimpiazzare la vecchia religione con quella nuova,la Religione dell'Umanità. DeLubac ne dipinge un affresco sintetico, ma completo, con una ironia p. 70 che non gli impedisce la più grande serietà [75]. Tale è la potenza dell’aspirazione religiosa che non è pensabile estinguerla: l’uomo non può ac-accontentarsi di una parzialità, e quindi per sostituire efficacemente la totalità(religiosa) trascendente, bisognerà inventare una totalità (religiosa, a suo modo) immanente [76]. «Il positivismo — può così annotare de Lubac — è essenzialmente una “religione dell'Umanità”» [77].

Consideriamo ora il secondo elemento, quello che abbiamo chiamato la rovinosità della negazione della risposta autentica al senso religioso. Essa è evidente in tutti e tre i tipidi ateismo, e nelle forme di esistenza collettiva che ad essi si ispirano, cioè rispettivamente il comunismo, il totalitarismo di destra e il capitalismo materialistico. De Lubac sofferma però la sua attenzione sulle radici teoriche di tale rovinosità, analizzandole nei fondatori dell’ateismo totalizzante contemporaneo. In verità, per quanto concerne il marxismo, non troviamo nell’opera del teologo di Cambrai una estesa denuncia degli effetti concreti del marxismo nei tipi di società che ad esso si ispirano, quanto piuttosto una ferma e lucida condanna degli errori teorici che stanno a monte di quelli[78]: p. 71 è comunque certo che da una concezione che risolve l’uomo nell’essenza specifica non ci si potrà aspettare un vero rispetto per il valore della persona[79]. Più spazio viene dato alla considerazione dei rovinosi effetti dell’ateismo nicciano; ma anche qui vi è una sorta di pudore a menzionare esplicitamente eventi storici concreti e de Lubac preferisce esaminare la profezia che Nietzsche stesso fece sullo sconvolgimento che avrebbe accompagnato l’assassinio di Dio. Egli era cosciente di introdurre una terribile novità, di innescare una spirale di catastrofi che dovranno finalmente travolgere il vecchio mondo, fondato sulla trascendenza. Prima che il Supetuomo definitivamente si affermi, insicurezza, abissale vertigine, immane senso di vuoto prenderà l'Europa[80]: «Io prometto — diceva Nietzsche — la venuta di un’epoca tragica»; e ancora, ricorda sempre deLubac [81]: «Noi dobbiamo aspettarci una lunga serie di demolizioni, di rovine, di sconvolgimenti», «per causa mia si prepara una catastrofe di cui io so il nome, un nome che non dirò... Allora tutta la terra si contorcerà in convulsioni». E, in effetti, così sarebbe poi accaduto[82]. Ma, anche in questo caso, come in quello del comunismo, si tratta di una disumanità evidente.

Dove invece possono sorgere degli equivoci e delle illusioni è nel caso (cui, non per nulla sono dedicate più pagine che a Feuerbach-Marx e Nietzsche messi insieme) di Comte. Il suo può sembrare un ateismo paffuto e simpatico, tutto sommato ingenuo e innocuo, quasi più da compatire che da combattere. Ma è una insidia che va smascherata.

p. 72

Quello di Comte non è un tollerante agnosticismo, in fondo indifferente alle diverse opzioni in materia religiosa: è un vero e proprio antiteismo, che si propone di riplasmare radicalmente l'umanità, sradicandone definitivamente la possibilità di volgersi a Dio[83]. E questo antiteismo dà luogo a un ideale di società tutt'altro che tollerante e pluralista: quella che Comte sogna, chiamandola «organica» e «positiva» è una società totalitaria, da cui ogni spazio di libertà e di democrazia è accuratamente escluso[84]; a nessuno sarà consentito di dubitare della «verità» appositamente plasmata dalla casta dei nuovi «sacerdoti-scienziati» al fine di garantire la compattezza e il buon funzionamento del tutto sociale, e senza alcun obbligo, ben s'intende, verso la «vera» verità [85]; la persona sarà dunque fagocitata dalla nuova divinità, la Società, Idolo spietato a cui immolare tutto di sé, nessuna intimità essendo consentita, nessun diritto avendo il singolo [86]. D'altra parte, la stessa Società umana, una volta eliminato il Disegno buono di Dio Creatore, sarà schiava di un cieco Fato, della inesorabile necessità, continuamente minacciata nella sua stessa esistenza[87]. È chiaro che tale società atea sarebbe tutt’altro che umana! Purtroppo ciò non è rimasto solo un sogno: come dice von Balthasar di esso «ancor oggi, dopo più di cento anni, resta ancora molto in cui ci si può rispecchiare»[88].

Riassumendo: l’ateismo distrugge l’uomo, privandolo di quell’assoluto, che, solo, potrebbe garantire la sua dignità infinita. Ma diamo la parola allo stesso de Lubac:

«Che cosa è avvenuto dell’uomo di questo umanesimo ateo? Un essere che appena si osa chiamare “essere”; una cosa che non ha più interiorità, una cellula interamente immersa in una massa indivenire (...). Non si cerchi perciò qualche profondità inviolabile, non si pretenda di scoprire qualche valore che si imponga al rispetto di tutti.

Niente impedisce perciò di utilizzarlo come un materiale o come uno strumento (...).

Nulla impedisce persino di gettarlo via come inservibile. (...)

p. 73

Questo uomo è letteralmente dissolto:

Che sia in nome del mito o della dialettica, l'uomo, perdendo la verità, perde se stesso» [89].

Conclusione

Ci pare così di avere sufficientemente mostrato come, nella concezione di de Lubac, in cui peraltro converge e rivive tutta una bimillenaria tradizione, l’uomo sia costitutivamente incentrato su e proteso verso quel Dio, che Gesù Cristo gli svela come Padre: la sua conoscenza è immersa nella Luce di Dio, il suo desiderio in null'altro è saziabile che nel Bene infinito, che è Dio, e quindi recidere i legami da quella Luce e da quel Bene non può che portarlo all’autodistruzione.

Nota biografica

Francesco Bertoldi, nato nel 1958, si è laureato in filosofia con una tesi sulla modernità in H. de Lubac, presso l’Università Cattolica di Milano. Attualmente insegna filosofia nelle Scuole Superiori. È pure ricercatore dell’Istituto di Studi per la Transizione (ISTRA).

p. 74

note


[1] Per un primo, del tutto sintetico chiarimento ci permettiamo di rinviare al nostro articolo “Henri de Lubac: un Maestro per leggere la Dei Verbum”,in Communio n. 87, maggio-giugno 1986, pp. 61-62. Ma per un ulteriore (e più autorevole) approfondimento, consigliamo tra gli altri J. Maritain, I gradi del sapere, tr. it. Morcelliana, Brescia 1974, cap. 6 passim e în specie pp. 298-299, e, del medesimo, Umanesimo integrale,tr. it.Borla, Roma 1977, 6ed., pp. 73-75 (cfr. anche le pagine seguenti).

[2] Su questo giudizio è significativa la convergenza di pensatori di così diversa estrazione culturale come Maritain e Gilson da una parte, von Balthasar e Stanyslaw Grygiel dall’altra. È vero poi, però, che la divergenza riemerge quando si tratta di delimitare l’area del razionalismo teologico, che per Maritain è molto più ristretta di quanto non lo sia secondo altri.

[3] Cfr.E. Gilson, “Le philosophe et la theologie”, Paris 1960; «Cajetan et l’humanisme théologique», in Arch. d’Hist. doctr. et litt. du Moyen Age, 22 (1955-6), p. 113; e “La tradition francaise et la chrétienté”, in Vigile,IV (1931), p. 74 e sgg. Cfr. J. Maritain, I gradi del sapere, tr.it. Brescia 1974, pp. 298-9; e M.D. Chénu, “Position de la théologie”, Rev. Sc.Ph. et Théol., 24 (1935),p. 242 sgg; M. Labourdette, “Théologie, intelligence de foi”, Rev. Thom., 1946, pp. 21-3.

[4] Cfr. ancora Maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo, tr. it. Brescia 1983, 5 ed., pp.28-32. In particolare «supponete una nozione puramente razionale — e buffa — di Dio, che sia chiusa al soprannaturale (...). Avremmo allora il falso Dio dei filosofi, il Giove di tutti i falsi dèi. Immaginate un Dio che sia legato all’ordine della natura e che non sia che una suprema garanzia e giustificazione di questo ordine, un Dio che sia responsabile di questo mondo senza poter redimerlo,e la cui inflessibile volontà (...) dica la sua consacrazione (...) a tutte le furfanterie e crudeltà come a tutta la generosità che operano nella natura, un Dio che benedica l’iniquità, la schiavitù e la miseria e che sacrifichi l’uomo al cosmo» (pp. 28-9).

[5] Questa posizione, che è semplicemente un pericolo latente di una certa impostazione teologica, era invece implicata in molto razionalismo filosofico moderno, ed è divenuta esplicita formula in alcuni pensatori contemporanei, tra cui forse il più noto è John Stuart Mill (Tre saggi sulla religione, 1874).

[6] È ciò che viene tematizzato organicamente in Sur les chemins de Dieu, 1956 (tr. it. Paoline, Sulle vie di Dio, 1974, ed.3), volume che rifonde ed ampia De la connaissance de Dieu, Paris 1945, il quale aveva destato in alcuni il sospetto di un ontologismo ai limiti dell’ortodossia: nel volume del 1956 de Lubac dimostrerà con abbondanti citazioni che il suo pensiero, puntualmente precisato, è in perfetta sintonia con S. Tommaso e con il Magistero della Chiesa. Citeremo dall'edizione italiana delle Paoline, Alba, 1976, con la sigla VD.

[7] VD, pp. 39-43. In particolare a p. 43: «Il Giudaismo e l’Islam smentiscono ancor più ogni teoria dello sviluppo religioso, che ricorre ai soli fattori estranei alla religione. Israele era un piccolo popolo, dal pensiero frusto, dall’economia rudimentale, dalla civiltà assai meno brillante di quella dei suoi grandi vicini, che a turno lo schiacciavano (...). Gli Arabi, prima dell’Egira, non avevano quasi civiltà».

[8] VD,p. 55.

[9] Ibidem.

[10] Ad esempio: «Omnia cognoscentia cognoscunt implicite Deum in quolibet cognito», De Veritate, q. 22, a. 2, ad 1um; e «ipsa divina substantia est primum intelligibile et totius intellectualis cognitionis principium», Contra Gentiles, I.III, c. 54) e ancora «intellectus (...) hominis est quasi lux illuminata luce divini Verbi», S.Theologiae, III, q.5, a.4, ad 2um.

[11] VD, p.150. Cfr. anche p. 141: «L'affermazione di Dio sorge prima di ogni coscienza, prima della formazione di ogni concetto,uscendo dalle radici stesse dell’essere e del pensiero, per dare alla coscienza la sua armatura e conferire il suo valore universale a ogni concetto. Segreta, avvolta, ma necessaria e permanente, essa è al fondo di ogni giudizio d’essere».

[12] VD, p.110. de Lubac cita a suo sostegno lo stesso J. Maritain, per il quale pure esiste «una conoscenzadi Dio (...) frutto di una percezione dell'essere “decisamente più profonda di ogni processo logico scientificamente sviluppato, perché ha la sua radice in una intuitività primordiale e semplice” (Alla ricercadi Dio, tr. it. Roma, 1972, ed. 6, pp. 7-18)».

[13] VD, p.53.

[14] VD, p. 58.

[15] «Per molti Dio è un’opinione (...). Per noi, egli è oggetto di prova. Su questo punto, del resto, la Chiesa cattolica s'è pronunziata più di una volta (...) contro il pericolo della “rinunzia metafisica”, l’insidia del nostro tempo. Il movimento che ci porta fino a Dio (...) non è soltanto uno slancio del cuore (...), esso ha valore universale», in VD, p.79.

[16] VD, p.58.

[17] VD,p. 65: «La probabilità non si comprende che nel campo empirico. Essa non ha senso che in rapporto a un oggetto particolare, cioè ad un oggetto che fa parte di un insieme; un fatto tra altri fatti. Ora Dio non fa parte dell’esperienza comune. Dio non è un fatto, Dio non è un “oggetto”».

[18] VD,p. 66.

[19] VD, pp.82-84:«Aliquid est, ergo Deus est» (p.83). «L'operazione sublime e semplice (Gratry) che conduce a Lui rimane in fondo sempre la stessa»(pp. 834).

[20] E ciò non tanto, dopo quello che abbiamo poco sopra detto, perché non lo ritenga lecito o necessario, quanto perché non ritiene che ciò rientri nel suo specifico compito.

[21] VD, rispettivamente pp. 87-8 e 88-9.

[22] VD,p.91.

[23] VD,p. 89: «Il divenire di per sé, non ha senso: scorre, svanisce senza realmente divenire. È un altro nome dell’assurdo. Ora, senza una Trascendenza, cioè un Assoluto presente, già stabilito al centro della realtà che diviene, non dipendente da essa, essendo questo Assoluto che la lavora, l’attira, la polarizza, la fa veramente avanzare, non vi può essere in definitiva che divenire, a meno che una catastrofe non venga a mettere una fine violenta a tutto, e che l’assurdo non ritrovi da ultimo, se così si può dire, la verità del suo essere, divenendo senza equivoco il nulla... Ogni divenire è causato dall’Essere. Ogni divenire è orientato verso l’Essere. Il divenire non può essere pensato che dall’Essere».

[24] VD, pp.918. In particolare p. 97: «Lo spirito umano potrebbe paragonarsi a una pianta. Il fine della pianta è, assimilando gli elementi che attinge dal di fuori, quello di vivere, di divenire se stessa. Il fine dello spirito, facendosi anzitutto li intendimento per assimilare il sensibile, non è di perdersi negli elementi che da ogni parte gli si offrono, né di costruire con esso l’edificio perfetto del sapere: è di divenire se stesso, è di vivere. E la sua vita è il possesso di sé — e di ogni cosa - nella luminosa dipendenza da Dio».

[25] VD, pp. 135-7.

[26] VD, pp.133-4.

[27] VD, p. 153: «Dio dell’intelligenza e Dio della coscienza - Dio della rivelazione soprannaturale e Dio della ragione - Dio della natura e Dio della storia- Dio dell'essere e Dio del valore - Dio della riflessione e Dio della preghiera -Dio del filosofo e Dio del mistico - Dio della dell'anima e Dio dell’universo - Dio della tradizione sociale e Dio della meditazione solitaria ... quanti contrapposti e quale unità!». Cfr. et p. 151.

[28] VD, p. 122: «La conoscenza di Dio per mezzo del mondo esterno è già in certo modo una rivelazione essa stessa ( ...). Poiché non è il mio spirito che per primo, dal mondo sale a Dio: è Dio che, in certo modo, per mezzo del mondo discende fino al mio spirito».

[29] VD, p. 123.

[30] VD, pp.191-202.

[31] Ci pare perciò evidente che la posizione di de Lubac è molto più equilibrata, e integrativa dell’istanza razionale, di quella di Pascal, per il quale, come è noto, il «Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe» è irriducibilmente altro da quello «dei filosofi e dei sapienti» (ci sia concesso osservare, en passant, che Egli è indubbiamente altro dal Dio di certi filosofi, come Cartesio, o Kant, o Hegel, ma non lo è dal Dio della ragione filosofica qua talis).

[32] Intendiamo riferirci anzitutto, com'è ovvio, alla tradizione cosiddetta agostiniana, e al pensiero patristico in generale. Ma lo stesso Tommaso e i migliori esponenti della Scuola non ignoravano che nella stessa conoscenza naturale di Dio, l’uomo concreto deve rettificare non la sola intelligenza, ma come condizione di questa, anche l’appetito della volontà (Cfr. S.Th.,Ia, q. 82, a. 4; Ia Ilae, q.9,a.1; De Veritate, q. 22, a. 12; 11 Contra Gent., cap. 26).

[33] VD, pp. 107.8.

[34] VD, pp.60-2: «Tutte le verità metafisiche, per quanto rigorosa ne sia stata la deduzione, lasciano la porta aperta a una istanza di dubbio. Perfino quelli che ne sono maggiormente colpiti, «un’ora dopo temono di essersi ingannati», o, in ogni modo, non ne sono soddisfatti» (p. 60).

[35] VD, p. 68. Cfr. p. 81: «Perciò la più valida delle prove dipende più di ogni altra — senza dubbio non nel suo schema astratto, ma nella sua forza di persuasione concreta — dalla «buona volontà», poiché è sempre qualcosa di più del funzionamento impersonale d’una intelligenza che si trova in gioco. La purezza dello sguardo si confonde qui con la lealtà».

[36] Questo argomento fu trattato da de Lubac dapprima in Surnaturel, edito nel 1946, che suscitò una vera tempesta da parte di alcuni teologi neotomisti, i quali riuscirono ad ottenere l’allontanamento del gesuita di Cambrai dalla cattedra alla Facoltà teologica di Lione (cfr. von Balthasar, Il padre de Lubac, tr. it.Jaca Book, Milano 1978).I capitoli fondamentali di Surnaturel vennero ripubblicati, in una temperie decisamente più favorevole, nel 1965 nei due volumi Augustinisme et théologie moderne e Le Mystère du Surnaturel, per i tipi di Aubier, Parigi. Noi citeremo dall'edizione della Jaca Book di Milano, Agostinismo e teologia moderna, 1978 (sigla= AM) e Il mistero del soprannaturale, 1978 (sigla=MS).

[37] Per un’analisi approfondita rimandiamo ad AM, p. 151 sgg., non essendo qui luogo per un organico panorama storico. Ci limitiamo a ricordare come, per de Lubac, vadano distinte due diverse motivazioni al sorgere della teoria della «natura pura»: una di tipo filosofico, che affonda le sue radici nel tardo Medioevo, per la quale la «natura» viene assumendo una sempre maggior consistenza rispetto alla «grazia», fino appunto a costituite un ordine in sé autosufficiente; l’altra, di tipo teologico, e per la quale de Lubac fornisce più attenuanti, è piuttosto una reazione agli eccessi del protestantesimo e del suo disprezzo per l’ambiente razionale-naturale (tale motivazione, ad esempio, è quella prevalente nel Bellarmino, a differenza che in Suarez, cfr. AM,p. 197 sgg.).

[38] AM,pp, 206/13.

[39] Sia in AM, sia in MS.

[40] Cfr. MS, cap. 5° passim.

[41] De Veritate, p. 18, a. 1, cit.in MS, p.159.

[42] Analogamente a quanto, poco prima, aveva affermato l’amico e confratello Yves de Montcheuil,di cui si veda ad esempio in Leçons sur le Christ, ed.De l’Épi, Paris 1949, pp. 81-85. Cfr.p. 84: «Questo è ciò che spiega l’Incarnazione del Verbo, il fare di noi dei figli di Dio». Del resto una vasta tradizione patristico-medioevale, eclissata poi dal prevalere della linea anselmiana, aveva visto il fine dell’Incarnazione prevalentemente nella deificazione dell’uomo, piuttosto che nell’espiazione pura e semplice del peccato originale. Cfr. Angelo Scola, «Cristo “Lumen gentium”» in Communio, n. 94, sett./ott. 1987, pp. 8-10 per una rapida sintesi; per un più organico approfondimento rinvieremo a G. Moioli, Cristologia. Proposta sistematica, Milano 1978.

[43] Tra i molti episodi che potremmo menzionare, ci limitiamo a ricordare la sua partecipazione di servizio militare nelle trincee francesi durante la Prima Guerra mondiale, che gli causerà gravi ferite e, in secondo luogo, il suo esporsi al rischio di sostenere (ovviamente in modalità non violente) la Resistenza anti-nazista. E come non ricordare la accorata partecipazione al dolore e al dramma dell'umanità contemporanta, quale emerge dalle vibranti e appassionate pagine dei suoi libri su Proudhon, sull’umanesimo ateo, sugli abbagli del messianismo utopistico (Cfr., rispettivamente, Proudhon et le Christianisme, Du Seuil, Paris 1945; Le drame de l’humanisme athée, Spes, Paris 1944; Affrontements mystiques, Témoignage chrétien, Paris 1950)? Bellissime osservazioni sulla sofferenza troviamo del resto in Nouveazx Paradoxes (ed, originale Du Seuil, Paris 1959, II ed.), tr. it. Nuovi paradossi, Paoline, Alba 19642; Cfr., ibi,cap. 4°, p. 78 sgg.

[44] Cfr. MS, pp. 154-5 e Rivelazione e senso dell'uomo, Jaca Book, Milano 1985, p. 15. Cfr. anche «Piccola cateche si su natura e grazia» ora in tr. it. in Spirizo e libertà, Jaca Book, Milano 198.., p.69 sgg. e Pico della Mirandola, tr. it.Jaca Book, Milano 1977, pp. 369-70.

[45] MS, cap. 5° passim; in particolare p. 138: «Dio (...)avrebbe potuto non darci l'essere. Epoi, per di più, questo essere che ci ha donato avrebbe potuto non chiamarlo a vederLo. (...) Nessuna specie di costruzione o di necessità (...) impone alla Volontà divina l'una o l’altra di queste due iniziative», Cfr.anche pp.139/40. ce senso.

[46] MS, p. 141: «Fra la natura esistente e il soprannaturale a cui Dio la destina, la distanza è così grande, l’eterogeneità è così radicale quanto fra il non-essere e l’essere. Perché il passaggio dell’una all’altra (...) è il superamento, per grazia, del limite insuperabile»..

[47] MS, p. 154 sgg., in particolare p. 158.

[48] Cfr. L. Giussani, La coscienza religiosa dell’uomo moderno, Milano 1985, parte in «O èla Chiesa che ha abbandonato l’umanità”», cap. 1° passim.

[49] Ci riferiamo, come ben s’intende, alle due fondamentali caratterizzazioni dell’ateismo contemporaneo, secondo uno schema autorevole e diffuso (Cfr.ad esempio il già citato Significato dell’ateismo contemporaneo, di Maritain, con, la distinzione (pp. 7-11) tra

  • ex parte subiecti, di
    • ateismo relativo (cioè
      • a) dichiarato ma non reale, oppure
      • b) non dichiarato ma reale)
    • e di ateismo assoluto (cioè reale e dichiarato)
    e ex parte obiecti, di ateismo
    • a) negativo (irreligioso, indifferente) e
    • b) positivo (antiteista, costruttivo, di radicale alternativa)

Analogamente Cornelio Fabro, in Introduzione all’ateismo moderno, ed. Studium, Roma 1969, vol. 1, pp.15-21; e ancora Gustavo Bontadini,in Ateismo sfida ai cristiani, opera collettiva edita da Vita e Pensiero, Milano 1969, distingue tra ateismo «irreligioso» (cioè negativo, indifferentista) e ateismo «postulatorio» {cioè opzionale, assiologico, totalizzante), cfr. pp. 8-9.Cfr. anche AA.VV., L'ateismo contemporaneo, ed.S.E.I., Torino 1967.

[50] Intendiamo riferirci, com'è chiaro, alla teologia «della secolarizzazione»e«della morte di Dio». Breve, ma esplicito e netto è il riferimento fattovi dallo stesso de Lubac in Athéisme et sens de l’homme (Cfr. RS, p. 226, in cui critica le posizioni di John A.T. Robinson e David L. Edwards in The Honest to God Debate, London 1963).

[51] In «Ateismo e senso dell’uomo» ora 2a parte di Rivelazione e senso dell’uomo, ed. Jaca Book, Milano 1985 (edizione che rifonde e integra, per volontà dell’Autore, i due precedenti commenti alla Dei Verbum e alla Gaudium et Spes, ossia La révélation divine (Paris 1968) e Athéisme et sens de l'homme (Paris 1968) già tradotti in italiano rispettivamente dalla Città Armoniosa di Reggio Emilia nel 1978 e dalla Cittadella di Assisinel 1968), p. 200. Citeremo dalla edizione dell’85 con RS.

[52] RS, p. 202.

[53] RS,pp. 203-4.

[54] Nel senso dato a questo aggettivo da Maritain, Il significato dell’ateismo..., cit., pp. 8-9; cfr. anche C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, cit., vol. 1, (tra l'altro) pp.33-5.

[55] Questo discorso è sviluppato, con differenze puramente accidentali, sia in Affrontements mystiques (Paris 1950) sia in Athéisme et sens de l'homme, già citato; hoi citeremo da quest'ultima opera.

[56] RS, p. 21 sgg. Può darsi infatti che talora, in passato si sia ricorso a Dio come a un «tappabuchi», che si sostituirebbe occasionalisticamente all’efficacia autonoma delle cause seconde, ma tale non è la convinzione del più genuino pensiero della tradizione cristiana,per il quale Dio non è introdotto per render conto di questo o di quel particolare fenomeno, ma quale chiave di volta della razionalità dell’essere. Sempre in questa prospettiva, de Lubac segnala la forma di «riduzione noetica», di ermeneutica del Cristianesimo e della religione che l’ateismo opera (a livello di scienze umane): si pretende cioè di «spiegare» la fede alla luce dell’antropologia, guidando il credente non tanto a rifiutare il suo credo, quanto a leggere in esso il rivestimento mitico e simbolico di verità puramente umane e razionali. Si tratta di una forma subdola e pseudo-scientifica di ateismo, che ha i suoi capostipiti in Lessing, Kant, Hegel e Feuerbach, e dal quale, ovviamente, occorre che i cristiani stiano ben in guardia (RS, pp. 206-12).

[57] RS, p. 223.

[58] RS, p. 229. Quando pure, osserva de Lubac, l’uomo potesse prolungare indefinitamente la sua esistenza biologica (il che è, a tutt’oggi, folle sogno), resterebbe ancora infinitamente bisognoso di felicità, cosa che non gli sarebbe affatto assicurata dal protrarsi della sua vita corporea, che, senza Dio, resterebbe costellata di errori, di paure, di solitudine, di sofferenze quanto meno morali.Cfr. anche Il pensiero religioso di P.Teilbard de Chardin, tr.it. Jaca Book, Milano 1983, cap. 4 e 5 (sul male e la morte).

[59] Su questo vi è concordanza tra de Lubac (cfr. Il dramma dell’umanesimo ateo, tr.it. Morcelliana, Brescia 1978, da cui citeremo con «DUA», p. 7), Fabro (op.cit., vol. II, p,1004; «a differenza dell’ateismo negativo dei secoli precedenti, l’ateiamo moderno si è venuto qualificando per strutturale, costitutivo e quindi positivo») e Maritain (op. cit., pp. 10-11.

[60] Così fanno, ad esempio tanto Feuerbach-Marx quanto Nietzsche,che concordano nell’accusare di patologica disistima di sé il soggetto che ritiene di aver bisogno di Dio: non essendo perciò in grado di procurarsi una felicità reale (cioè, per questi pensatori, immanente, terrena), si aliena in una felicità illusoria, ultramondana. Pur riconoscendo una diversità di motivazioni di fenomeno dell’alienazione religiosa (gli uni ponendola nell’oppressione economico-sociale, l’altro nella repressione della volontà di potenza) de Lubac stesso notata la convergenza sulla procedura di demolizione teorica del fatto religioso (cfr. DUA, p. 30: si trova in Nietzsche «una spiegazione della credenza in Dio (...) molto vicina a quella di Feuerbach»).

[61] Donde la denominazione di «assiologico» per tale tipo di ateismo. Ciò che è vero soprattutto per Nietzsche (cfr. DUA,p. 33), ma lo è anche per Feuerbach (DUA, pp. 20-2) e per Comte (DUA, pp. 129-31). Da ciò deriva quel carattere di irriducibile contrapposizione con la religione (e il Cristianesimo in specie), che non può che essere valutata in termini di condanna (come abbiamo visto fare in de Lubac). Non si tratta infatti di una «messa-tra-parentesi» di Dio, ma di una sua radicale, cosciente e voluta negazione. Né ci si può illudere che bastino ragioni (spiegazioni, chiarimenti) a sciogliere l’intimo nucleo di un ateismo che è invece questione di scelta, opzione per una indipendenza totale del soggetto (cfr.RS, p.240).

[62] DUA, pp.26-7. Cfr. von Balthasar, Il Padre H.de Lubac, cit., p. 53.

[63] DUA, p. 23. de Lubac cita da L’Essenza del Cristianesimo.

[64] Ibidem.

[65] Alla ricerca di un uomo nuovo, tr. it. Borla,Torino 1964, p. 57.

[66] La posterità spirituale di Gioachino da Fiore, tr.it. Jaca Book, Milano 1984, vol. II, p. 401. Vi è, nota de Lubac in quest'opera (come già in quella qui sopra citata, Alla ricerca di un uomo nuovo) una corrispondenza tra i dogmi cristiani di Peccato originale, Incarnazione, Redenzione, Regno escatologico e i concetti marxiani di alienazione, di diffusione della Critica nella massa proletaria, di compito storico-universale del Proletariato, attraverso la Croce dell’estrema contraddizione e la Resurrezione della rivoluzione, e infine di una società comunista, perfetto regno dell'Uomo (Ibi,pp. 400-6). Si trattadi una trasposizione che Marx apprese dal maestro Hegel, il quale a sua volta, per de Lubac, attinge da quel potente, ma finora trascurato, filone sotterraneo della cultura occidentale moderna,che si chiama gioachimismo. Il quale era appunto, la pretesa di leggere, oltre la lettera, lo spirito, il senso simbolico del dogma cristiano, svuotato della sua genuina sostanza (cfr. op. cit, vol. 1, cap. 1). Sul significato dell’indagine di de Lubac circa il gioachimismo, cfr. la “Conclusione” di von Balthasar in Le Cardinal de Lubac,ed. Lethielleux, Paris 1983, pp, 1369.

[67] DUA,pp. 33-4.

[68] In Nietzsche mistico (ora in tr. it.in Mistica e mistero cristiano, Jaca Book, Milano 1979, pp.267-98), p. 274.

[69] Ibi, pp. 277-8.

[70] Ibi,pp. 279-80.

[71] Ibi,p. 286.

[72] Ibi,p. 288.

[73] Il padre H. de Lubac, cit., p. 57.

[74] Ibidem.

[75] Come, dopo di Lui, farà Maritain in La filosofia morale (ed. orig. New York 1964) tr. it. Morcelliana, Brescia 1973, capp. 11 e 12. In particolare de Lubac denunciail rischio che la Chiesa si lasci sedurre da questo ateismo velato, strisciante, che si è ampiamente incarnato nel capitalismo consumista e materialista dell’Occidente contemporaneo (cfr. DUA, pp. 162-8, in specie p. 168).

[76] DUA,pp. 130-7.

[77] DUA, p. 133. Si potrebbe certo chiedersi se la Religione comtiana non sia semplicemente un tributo che egli pagava, in parte alla sua labilità psichica, e in parte alla temperie romantica, idealizzante e sognatrice, in cui visse e operò. E perciò si potrebbe dubitare che tale istanza totalizzante sia solo una cornice estrinsecamente sovrapposta ad un quadro di rigorosa scientificità che si regge benissimo in piedi da sé. Noi però restiamo convinti della validità della tesi di de Lubac che vede nell'apparato «religioso» un elemento intrinseco e inscindibile non solo del pensiero di Comte, ma pure di una vasta corrente di ateismo di matrice positivistica, che ancor oggi impera, specie in Occidente: una pura e semplice dimenticanza del sacro non è meno impossibile della totale eliminazione dei contenuti psichici dolorosi o minacciosi rimossi dalla coscienza. (Cfr.in J. Maritain, Quattro saggi sullo spirito umano,tr. it. Brescia 1978, il concetto di «preconscio»; e F. Dogana, Psicopatologia dei consumi quotidiani, F.Angeli, Milano 1980, ed. 11, passim per il trasferimento di bisogni religiosi «repressi» su oggetti d consumo).

[78] De Lubac parla di Marx soprattutto ne Le drame de l'humanisme athée (1944), in Proudbon et le Christianisme (1945), in Affrontements mystiques (1950), e ne La Posterité spirituelle de Joachismde Flore (vol. II, 1981).La critica più sistematica è condotta nella terza di tali opere, in cui egli mostra la contraddittorietà della pretesadi estrarre il «non-dialettico» dal «dialettico» (p.65 della tr. it. cit.), il non-contraddittorio dal contraddittorio, il perfetto dall’imperfetto, un Regno di perfetta unità da una storia fatta di lotta. In Petite catéchèse sur Nature et Grace (Paris 1980), tr. it. in Spirito e libertà, Milano 1981, si trova una condanna anche di quella «teologia della liberazione» che fa del marxismo il proprio asse portante (p. 60).

[79] Cfr. RS, pp.232-4.Forse il motivo di una tale «dimenticanza» è proprio il fatto che la disumanità del sistema politico ispirato a Marx è così evidente che diviene inutile sottolinearla ulteriormente.

[80] DUA, pp. 34-5.

[81] DUA,p. 40.

[82] Non vogliamo qui entrare inmerito al dibattuto problema delrapporto Nietzsche-nazismo. Certo esistono delle innegabili affinità, come rileva una attenta ed erudita conoscitrice del filosofo tedesco, quale Sofia Vanni Rovighi (cfr. Uomo e natura Milano 1980, pp. 32-49). In ogni caso de Lubac,in forma pudicamente implicita, ma inequivocabile, non esita a vedere in certi fenomeni storici una verifica dell’ateismo nicciano (DUA, pp. 40-1), pur non mancando di cercare anche in Nietzsche dei possibili elementi positivi (cfr. DUA, p. 59 sgg.,e «Nietzsche mistico», cit., passim).

[83] DUA,pp. 125-7.

[84] DUA, p. 189 sgg.

[85] DUA,pp. 190-3.

[86] DUA,pp. 202-3. Cfr.ancora Maritain, La filosofia morale, cit., p. 375 sgg.

[87] DUA,pp. 204-5. Sui rischi di un facile ottimismo sociologistico cfr. Il pensiero religioso del P. Teilbard de Chardin, cit.e la Piccola catechesi su natura e grazia, cit., pp.80.93.

[88] Il padre H. de Lubac, cit., p. 57.

[89] DUA, p. 41.